Giacomo Matteotti fu perseguitato dal regime fascista o fu lui a perseguitare, anche oltre la sua tragica fine, le ingiustizie e le prevaricazioni del ventennio?
Ci piace pensare che lo spirito indomito del deputato socialista- come peraltro lo stesso Matteotti aveva vaticinato con la famosa frase circa la immarcescibilità delle sue idee di libertà- sopravvisse alle sue martoriate spoglie, tanto da irridere finanche il processo farsa che si celebrò contro i suoi assassini. Infatti, dopo la conclusione della seconda guerra mondiale e la nascita della Repubblica, in seguito al Decreto Luogotenenziale del 27.7.1944 n. 159 (che rendeva potenzialmente nulle le condanne avvenute in epoca fascista superiori ai tre anni), la Corte di Cassazione con sentenza del 6 novembre 1944 dichiarò l’inesistenza giuridica della sentenza di condanna degli squadristi. Così, la Corte d’assise di Roma istruì da capo il processo nei confronti di Giunta, Rossi, Dumini, Viola, Poveromo, Malacria, Filippelli, Panzeri (Giovanni Marinelli ed Emilio De Bono erano stati fucilati a Verona dagli stessi fascisti). Con la revisione del processo, Dumini, Viola e Poveromo furono condannati all’ergastolo (poi commutato in 30 anni di carcere), Cesare Rossi venne assolto per insufficienza di prove, mentre per gli altri imputati si ravvisò il non luogo a procedere a causa dell’amnistia Togliatti disposta dal D.P.R. 22.6.1946, n. 4.
Facciamo un passo indietro.
Il 10 giugno 1924, intorno alle ore 16:15, Matteotti uscì a piedi dalla propria residenza di via Pisanelli 40, nel Quartiere Flaminio, per dirigersi verso Montecitorio. Sul Lungotevere, secondo le testimonianze, era ferma un’auto con a bordo i membri della polizia politica: Amerigo Dumini, Albino Volpi, Giuseppe Viola, Augusto Malacria e Amleto Poveromo. All’interno della vettura scoppiò una rissa violenta e dall’abitacolo della vettura Matteotti riuscì a gettare fuori il suo tesserino da parlamentare che fu successivamente ritrovato. Non riuscendo a tenerlo fermo, dopo un po’ Giuseppe Viola estrasse un coltello e colpì Matteotti sotto l’ascella e al torace uccidendolo.
Due giorni dopo il rapimento, fu individuata l’auto che risultò di proprietà del direttore del Corriere Italiano Filippo Filippelli. Nacquero le prime indagini, intentate dal magistrato Mauro Del Giudice, intransigente giurista, difensore dell’indipendenza della magistratura di fronte al potere esecutivo, il quale, assieme al giudice Umberto Guglielmo Tancredi, fin dall’inizio individuò in Dumini la mano dell’assassino. In breve tutti i rapitori furono identificati e arrestati, ma su ordine diretto di Mussolini, l’incarico venne tolto al magistrato e le indagini vennero fermate. Del Giudice fu in seguito allontanato dalla capitale e qualche anno dopo, portato al pensionamento forzato.
Il 27 giugno 1924 i parlamentari dell’opposizione si riunirono in una sala di Montecitorio, oggi nota come “Sala dell’Aventino”, decidendo comunemente di abbandonare i lavori parlamentari finché il governo non avesse chiarito la propria posizione a proposito dell’omicidio Matteotti.
L’8 luglio, approfittando dell’assenza dell’opposizione, il governo- al fine anche di temperare il dibattito pubblico che si stava scaldando- varò nuovi regolamenti restrittivi relativi alla stampa, rafforzati due giorni dopo dall’obbligo per ciascun giornale di nominare un direttore responsabile. Costui poteva essere diffidato se contravveniva le leggi e il giornale messo in condizione di non poter più pubblicare.
Il 24 luglio Roberto Farinacci– importante esponente del fascismo- in una lettera dichiarò di accettare l’incarico di avvocato della difesa nella causa contro Dumini e compagni.
Il corpo di Matteotti non fu ritrovato se non per caso oltre due mesi dopo l’omicidio, il 16 agosto.
Il giorno prima dei funerali, la vedova di Matteotti scrisse al ministro dell’interno Federzoni chiedendo che al funerale non fossero presenti esponenti del PNF e della Milizia. La dignità e il decoro della signora Matteotti si ripeterono allorquando- con una lettera al presidente della Corte d’Assise- ella comunicò la sua ferma decisione di non costituirsi parte civile: <<l’assassinio di Matteotti mi lasciò credere che giustizia non sarebbe invano stata evocata. Ma il processo (il vero processo) è svanito. Ciò che rimane non è più che l’ombra vana. Io volevo solo giustizia: gli uomini me l’hanno negata, ma l’avrò dalla storia>>.
Dopo l’istruttoria condotta da Mauro Del Giudice, era stato aperto un procedimento davanti dall’Alta Corte di Giustizia del Senato per omicidio nell’ambito di un reato di associazione a delinquere: ne era imputato l’allora capo della Pubblica Sicurezza e della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale (MVSN), il quadrumviro Emilio De Bono, costretto alle dimissioni da Mussolini. Questo bloccò per sei mesi il processo romano, fino a quando il Senato del Regno – nel giugno 1925 – pronunciò il non luogo a procedere.
Fu il modo di eliminare la pista processuale che avrebbe portato a Mussolini. Il processo sull’omicidio Matteotti si ridusse a una farsa, grazie all’amnistia che il re, su proposta di Alfredo Rocco, aveva emanato a fine luglio 1925 per i delitti minori e alla circostanza per la quale il giudizio si limitò ai soli esecutori materiali ed il dibattimento si svolse dal 16 marzo al 24 marzo 1926 a Chieti. Dumini, Volpi e Poveromo furono condannati per omicidio preterintenzionale[68] alla pena di anni 5, mesi 11 e giorni 20 di reclusione, nonché all’interdizione perpetua dai pubblici uffici, mentre per Panzeri, che non partecipò attivamente al rapimento, Malacria e Viola ci fu l’assoluzione. Il collegio di difesa degli imputati, a seguito di richiesta di Dumini, venne- significativamente!- guidato da Roberto Farinacci, a quel tempo segretario nazionale del Partito Nazionale Fascista.
Con la revisione del processo, all’indomani della caduta del regime, Dumini, Viola e Poveromo furono condannati all’ergastolo (poi commutato in 30 anni di carcere), Cesare Rossi venne assolto per insufficienza di prove, mentre per gli altri imputati si ravvisò il non luogo a procedere a causa dell’amnistia di Togliatti.
Tutti coloro che furono riconosciuti responsabili nell’omicidio furono esponenti o sostenitori del regime fascista: eppure mancò la responsabilità diretta di Mussolini, sotto il solo profilo dell’accertamento giudiziario, però. Infatti, durante il primo processo, nel settembre 1925, fu pronunciato il non luogo a procedere contro Mussolini, sulla denuncia avanzata da Attilio Pastorino, come conseguenza della sentenza assolutoria del Senato del Regno su De Bono; durante il secondo processo, in sede di rinvio a giudizio fu accolta la requisitoria del procuratore generale Spagnuolo del 27 marzo 1946 nella parte in cui dichiarava il non doversi procedere a carico di Mussolini Benito per estinzione del reato a causa del suo decesso.
Giacomo Matteotti aveva solo 39 anni quando morì; al suo sacrificio si deve anche il trionfo di una giustizia libera. Il primo processo farsa ne è un esempio. La necessità di celebrarne uno nuovo, scevro da condizionamenti e rispettoso dell’autonomia dei giudici, è il frutto, anche esso, dell’ultima invocazione del martire socialista :<<L’idea che è in me non l’ucciderete mai>>.
(Avv. Cecchino Cacciatore)